Costruire un evento su misura dai dati dei social network
Grazie al web 2.0 ultimamente la quantità di dati digitali creati, processati e archiviati nel mondo è cresciuta esponenzialmente: ogni attività svolta online e in particolare sui social media o attraverso le tecnologie di comunicazione connesse a GPS o sensori e device aziendali (come la Intranet) genera una serie di record che vengono classificati come “metadati” o “big data” sulla base del loro volume, della loro varietà e della velocità con cui proliferano (questo secondo i modello di colui che per la prima volta definì i big data, Laney). La diffusione dell’analisi dei big data nei Paesi europei, secondo l’Eurostat nel 2018 si è ormai consolidata presso Francia, Germania, Spagna, Irlanda e Svezia, mentre in Italia solo il 7% delle imprese studia i dati, ponendoci nel fanalino di coda della classifica: i vantaggi del big data analytics da noi probabilmente non sono ancora chiari – complice anche la poca formazione o informazione delle PMI, che in Italia rappresentano il 99% del tessuto industriale (dato che le analisi sono eseguite in gran parte della grandi corporate, almeno per il 33%).
I vantaggi, tuttavia, sono evidenti: lo studio di questi dati permette di costruire strategie di customer experience cucite su misura sulle esigenze del cliente. La quantità di flussi di informazioni che ogni giorno vengono generati dai nostri dispositivi è infatti amplissima, e genera un’enorme mole di dati (appunto, i big data) che se analizzati correttamente si possono trasformare in soluzioni di mercato basate sulle preferenze reali dei propri consumatori o potenziali tali – cosa che spesso non succede quando si effettuano ricerche di mercato classiche basate su domande poste agli intervistati, questo perché le risposte sono spesso “macchiate” da quelli che vengono definiti “bias cognitivi”, ovvero imprecisioni dovute a fattori contestuali e/o legati alla natura stessa dell’intervista (es. imbarazzo davanti all’intervistatore o “response set”, cioè la tendenza a dare valori medi quando non conosciamo bene l’argomento da valutare – cosa che vanifica gli sforzi di classificare la bontà di un’azione di marketing potenziale, da valutare ex-ante tramite interviste).
Questa logica “push” delle ricerche di marketing (cioè la somministrazione delle domande su cose che noi come impresa vogliamo sapere) non funziona più da tempo, in quanto la strategia vincente è quella “pull”, ovvero stimolare il prospect (potenziale cliente) perché sia lui a dirci cosa fare indirettamente, quindi osservando i suoi comportamenti (soprattutto sul web, con la cosiddetta “netnografia” = etnografia applicata alla rete) e traendone conclusioni per migliorare la nostra offerta di prodotto o servizio.
Ma nella pratica, come si applica lo studio e l’analisi dei big data – soprattutto per un settore come quello del marketing dei servizi?
In generale, essi sono il nuovo motore – ad esempio – per costruire un sito aziendale in ottica SEO (Search Engine Optimization): banalmente, da un’analisi delle parole più utilizzate nei social media (ad esempio, gli hashtag su Twitter e LinkedIn), con dei software adatti al text mining come SAS Text Miner, o MATLAB, o IBM SPSS (i più commerciali), la nuova figura del Data Scientisit – un must ormai per le imprese che vogliano posizionarsi online e offline – riuscirà a tirar fuori le parole migliori da utilizzare come perno degli argomenti per il blog aziendale, o per le newsletter, o in generale per le ricerche su Google riguardo la nostra azienda (in questo caso parliamo di Search Engine Marketing però, normalmente a pagamento).
D’altro canto, però, non basta trattare i dati dal loro punto di vista quantitativo, se si vuole puntare all’Experential Marketing (un’interazione che crea una situazione win-win per cliente e azienda, in una dimensione di engagement online e/o offline fortemente brandizzata): bisogna cogliere gli insight della nostra audience, di chi ci ascolta.
Nella progettazione degli eventi, ad esempio, e in particolare quando si tratta di progettare una app (ormai sempre più inquadrate in una strategia di comunicazione omni-channel per le aziende, ciò significa che le app devono dialogare con gli altri touchpoints aziendali), è bene chiedere al cliente un brief in cui si chieda una sentiment analisys (nota anche come opinion mining) dell’ultimo semestre. In pratica, un documento in cui si evidenzi il tipo di atteggiamento degli utenti verso la nostra comunicazione aziendale (es. positivo, negativo o neutrale nei confronti di un post): cosa che è sicuramente agevolata ormai dalle “reazioni” integrative dei semplici “like” su Facebook. Ciò permette all’agenzia di individuare dei punti di forza e di debolezza dell’azienda, e di focalizzare l’evento e/o l’app a supporto di quest’ultima sulla valorizzazione dei primi e il miglioramento dei secondi.
In generale, è chiara dunque l’esigenza di effettuare un “social media listening” strutturato e continuativo nel tempo, per tutti i tipi di aziende ma in particolare per quelle che vogliano avere un’immagine coordinata sia online che offline, in un’ottica in cui l’esperienza sia circolare: dal web e nella realtà per ritornare sul web e alimentare nuovi eventi imperniati sul brand engagement.